venerdì 11 aprile 2014

La lunga attesa dell'angelo di Melania Mazzucco

Copertina di La lunga attesa dell'angelo

Appassionante
Resto stupefatta dalla capacità della Mazzucco di calarsi in panni non suoi. Jacomo Robusti detto Tintoretto è così credibile, così appassionato e reale che sembra essere davvero lui a parlarci, pare di leggere il suo diario e non una ricostruzione romanzata della sua vita ad opera di una scrittrice dei giorni nostri. L’autrice si è documentata moltissimo e i fatti narrati sono reali, ovviamente le considerazioni del pittore, i sentimenti esposti durante il delirio nella quale ripercorre tutta la sua vita, sono filtrati dalla capacità letteraria della Mazzucco e dal suo fervido potere immedesimativo.
I libri così lunghi mi sgomentano, vanno a mettere alla prova il mio lato impaziente e sbrigativo del sapere tutto subito. Questo non ha fatto eccezione. Quando mi apprestavo ad aprirlo per leggerlo percepivo la fatica e la smania di avere ancora molte pagine davanti, poi iniziavo e vi trovavo talmente tante verità che la lunghezza cessava di essere un problema.
Tuttavia, in questo romanzo, la Mazzucco, un pochino più concisa avrebbe potuto essere,  senza nulla togliere alla completezza del racconto, ma credo che sia una caratteristica dell’autrice una certa esagerazione, ridondanza, quasi ai limiti dell’eccesso. “La lunga attesa dell’angelo” è un libro barocco, più nel contenuto che nella forma.
Le parti del romanzo inerenti le considerazioni pittoriche sono quelle che maggiormente mi hanno coinvolta, forse perché in qualità di artista mi sento chiamata in causa. Molte affermazioni  di Jacomo in tema di pittura le ho sentite mie, mi ci sono rispecchiata come se l’autrice attraverso di lui avesse dato voce ai miei pensieri, come se alcune sue affermazioni fossero la spiegazione logica dei miei dipinti, dei miei ritratti. Lungi dall’avere la bravura e la fama di Tintoretto mi sono comunque rispecchiata nel suo bisogno di trovare un’essenzialità delle cose, nel cogliere l’umanità e non la solennità del ritratto, nel dare dignità anche alla gente comune attraverso la pittura, proprio ciò che sto facendo nel mio ultimo progetto pittorico.
Molto interessante la fotografia che la scrittrice ha fatto di Venezia, non solo dal punto di vista paesaggistico, bensì vedendola dall’ottica socio-politica. Ha fatto una descrizione ( di cui riporto subito sotto un’estratto) di un’attualità sconcertante, Venezia come l’Italia di oggi, certi meccanismi che si ripetono all’infinito nel corso dei secoli, meccanismi tipici dell’uomo evidentemente, visto che pur passando il tempo gli errori e le brutture sono gli stessi, senza correzione possibile.
“Dove la nascita decide il futuro delle persone più del loro talento. Dove i vecchi ostacolano i giovani, li riempiono di occasioni di svago e di piacere perché essi dimentichino di crescere e di soppiantarli. Dove a trent'anni ti considerano ancora una giovane promessa e ti rispettano solo quando ostenti i tuoi capelli bianchi.” Cit.

Belle anche le parti in cui si analizza il rapporto con i numerosi figli, rapporto per lo più inesistente con molti di essi, perché alla fine l’arte è tiranna, ti vuole tutta per se, ti prosciuga e finisce che per i rapporti umani ti restano poco tempo e poche energie. Il passaggio in cui parla delle figlie chiuse in monastero è tristissima, donne intelligenti tolte alla loro vita a causa dell'indifferenza del padre e dei costumi dell’epoca. Jacomo durante l’agonia si rammarica di questi suoi errori con i figli, ma ormai è troppo tardi per rimediare. La parte che ho apprezzato di meno è quella inerente il rapporto di affetto smodato e patologico per la figlia Marietta, l’unica veramente amata, amata troppo e in modo errato, pagine alla lunga ossessive e stancanti.
Nonostante alcuni frammenti un po’ sovrabbondanti comunque nel complesso questo è un libro molto bello, che consiglio a chi ama la pittura e le storie a tinte forti, dove le passioni non sono mai tiepide e dove gli accadimenti sono spesso crudeli.
Con le citazioni ho ecceduto, ma non potevo fare altrimenti, quelle evidenziate in neretto le sento talmente mie che è come se la Mazzucco mi avesse letto nel pensiero.

Citazioni

“È deludente il momento in cui scopri che la tua opera non ti appartiene più. Che non è affatto ciò che doveva essere - non è nemmeno la brutta copia delle tue intenzioni - ma che non potrà mai essere nient'altro.”

“Non ho preso più impegni da quando ho cominciato a temere di non poterle mantenere.”

“Io ero appena diventato me stesso. Vivevo per dipingere.… Mi liberavo di tutto ciò che avevo appreso, del desiderio di stupire, della paura di dispiacere, della necessità di dimostrare - citando gli altri esiti dei miei predecessori - ciò di cui ero capace.”

“Volevo lasciare il segno del mio passaggio sulla terra, ma avevo scelto di farlo creando non procreando.”

“È come se guardassi i miei modelli troppo da vicino, dal buco della serratura senza differenza e senza rispetto.”

“... la verità delle cose si nasconde nella loro apparenza, o forse è proprio allora apparenza: ma ha ragione, guardo le creature troppo da vicino, senza rispetto. Perché è così che guardo me stesso.”

Il processo di semplificazione richiede una vita intera… Una pupilla e la piega di una bocca mi bastano a raccontare che cosa è un uomo.”

“Ho lavorato tanto troppo, forse. Solo in quel modo, però, avevo l'illusione di bloccare la ruota, incastrare gli ingranaggi, dire alla vita: fermati. Solo dipingendo credevo di vivere, Signore.”

“Trovo fastidiosi i bambini. I loro capricci, la loro crudeltà, vigliaccheria e impotenza mi deprimono. Ho penato per imparare a dipingerli, perché tutti i bambini si somigliano, in fondo. Gli adulti sono talmente più interessanti. È la vita trascorsa che rende le persone uniche.

“Solo i giovani sprofondano regolarmente nell'incoscienza: essi non temono di non destarsi l'indomani.”

“Alla gente sembra naturale pagare un marinaio per pilotare una barca o il falegname che gli aggiusta un tavolo, non un artista che ti abbellisce un salotto, un palazzo o lo Stato - e forse ti farà vivere quanto le tue ossa saranno cenere. Non c'è niente di più umiliante che chiedere ciò che ti è dovuto, Signore.”


Si sorprese che un soggetto così volgare ripugnante potesse costituire invece la materia di un'opera d'arte.<…> ho reso eterni tutti gli ammalati senza nome che hanno sofferto la malattia e tutte le malattie e tutti i dolori e tutte le sofferenze e le umiliazioni che il corpo morente procura. Quegli ammalati sono degni di figurare nell'opera di un grande artista.”

“Diventare così vecchi come sono io significa restare soli. Significa perdere non solo coloro che ci hanno amato o che abbiamo amato, ma perdere perfino il mondo in cui abbiamo vissuto e ritrovarsi in un mondo diverso e nuovo e incomprensibile come un continente sconosciuto. Al quale tentiamo di abituarci ma che non sarà mai il nostro.”

“E dipingere un essere umano vero, un essere umano qualunque - non un personaggio della mitologia o della religione - ti dà una responsabilità che non si può paragonare niente. Perché, alla fine, siamo noi accogliere la sua bellezza, cioè la sua verità. Siamo noi a farlo vivere.”



lunedì 7 aprile 2014

Splendore di Margareth Mazzantini

Copertina di Splendore

*** Attenzione: di seguito anticipazioni sulla trama (SPOILER) ***

L'esagerazione di Margareth (3,8 stelle)

Premessa e pippe mentali
Se non avessi letto “Splendore” della Mazzantini subito dopo “L’amica geniale” della Ferrante e “Un’esperienza personale” di Kenzaburo avrei reagito allo stesso modo? Avrei provato ugualmente quel senso di fastidiosa sopportazione di fronte all’ennesima violenza, all’ennesima storia che parte dall’infanzia, all’ennesimo personaggio masochista? A volte mi pare che il caso mi guidi a libri collegati tra loro da un filo conduttore, che per quanto esile possa essere, questo filo c’è, e talvolta mi infastidisce, soprattutto quando vorrei staccare da un argomento e invece me lo ritrovo, magari camuffato, nel libro successivo. Per questo non mi è chiaro quanto il mio giudizio su un romanzo sia influenzato dal clima mentale in cui viene a capitarmi tra le mani. Provo certe sensazioni a causa del libro in sé oppure a causa di una concatenazione di letture? Per quanto doloroso, ho amato “Venuto al mondo” della Mazzantini, i personaggi mi erano entrati dentro, vivevo con loro, ero empatica... In “Splendore” provo quasi un disgusto, una nausea, una sensazione di già letto, già sentito, una mal sopportazione per l’uso smodato di parole forti, lo trovo eccessivamente drammatico, scarno a tratti e ridondante allo stesso tempo. Sono stanca di sesso al limite, di masochismo, di discese agl’inferi... Ma è il libro in se che mi stanca o la serie di letture in sequenza?
Avevo a malapena sopportato il libro di Kenzaburo (vedi commento) e adesso mi trovo di nuovo allo stesso punto con la Mazzantini. La copertina del libro, il titolo mi hanno fuorviata, chissà perché mi aspettavo un libro diverso, ma colpa mia, come potevo aspettarmi dalla cara Margareth qualcosa di delicato e leggero? Volevo depurarmi dalla giapponesità ( che devo prendere a piccole dosi) e me la ritrovo anche qui, anche se ammetto che in questo caso il personaggio giapponese è forse quello più positivo di tutto il romanzo. Volevo un libro “buono” e mi ritrovo di nuovo una storia crudele, estrema... Volevo qualcosa di originale e mi trovo una storia che all’inizio mi pare la versione maschile de “L’amica geniale” (vedi commento) e che alla fine mi ricorda un film da Oscar.

Commento
Dopo questa premessa un po’ logorroica da persona disturbata tento di parlare di “Splendore” senza riferimenti esterni.
Nel complesso posso definirlo un bel libro anche se me  lo aspettavo più insolito. Sicuramente leggere una storia d’amore omosessuale di per sé è  poco comune, ma tutto sommato l’innovazione forse è data maggiormente dal modo in cui si esprime ciò che si descrive rispetto al contenuto di ciò che si racconta. L’unicità è data da una sinergia tra forma e contenuto. In questo caso non ho trovato punti di vista particolarmente folgoranti, anche se ammetto che la Mazzantini è stata comunque brava a calarsi nei panni di un io narrante maschio e gay.
Il pregio maggiore del romanzo è forse anche il suo peggior difetto: l’esagerazione. Tutto è portato all’eccesso e se da un lato appassiona dall’altro stanca, le emozioni forti, se non dosate, alla lunga diventano un fiume in piena che travolge tutto e che anestetizza. Alla fine dei conti il personaggio che ho amato maggiormente è Izumi, figura apparentemente in secondo piano ma che al momento giusto sa mostrare una personalità forte e molto affascinante.
Interessante notare l’accusa nemmeno troppo velata al cattolicesimo che vede l’omosessualità come una malattia da curare, la contrapposizione tra Guido ateo e Costantino di tradizione cattolica ed il loro diverso approdo in merito al loro amore, il primo accetta la sua sessualità mentre il secondo la rifiuta come se fosse un male da cui è guarito grazie alla fede. Da notare anche che Guido, emigrato in Inghilterra, multietnica e in parte protestante, avrà una visione più aperta che lo porterà all’accettazione di sé rispetto a Costantino che rimane nell’Italia cattolica e  tradizionale.
Comunque, ripensando al libro a mente fredda, continuo ad avere la sensazione di già sentito, già visto... Un pensiero del protagonista nel finale mi ha ricordato enormemente la figura di Gep Gambardella de “La grande bellezza di Sorrentino”che ritorna sul luogo del suo amore giovanile, quello vero, l’unico, e mi sono chiesta se l’autrice sia stata influenzata dal film nella chiusura del suo romanzo : “Dovrei tornare nel punto dove la mia vita cominciò, la serratura cadde e la porta si aprì. Nell’estate della bellezza. ” (cit. Da Splendore)
Il giudizio complessivo tuttavia, nonostante le critiche appena mosse, rimane buono. Belle sono alcune frasi e alcuni concetti che riporto volentieri nelle citazioni.

Citazioni

“Mangiavo in cucina, cibi senza sostanza e senza sapore davanti a una domestica di spalle che rigovernava. Cambiò molte volte, ma per me fu sempre la stessa, una figura mite ma nemica che consentì a mia madre di abbandonarmi durante tutta l’infanzia.”

“...la sua fame da adulta era tutta volta verso quel pane squisitamente intellettuale che da bambina a casa sua, quella di un modesto casellante, le era così mancato.”

“Ero il bambino ideale per una domestica straniera, un corpo silenzioso, quasi invisibile. Se ne andavano verso la lavanderia afflitte dalla loro cupa nostalgia. Fu il primo esercizio umano che feci, affogare sotto quei grembiuli a quadretti, restare a distanza in compagnia di quelle vite distanti intere civiltà. Imparai che l’asse da stiro è il regno magico di queste vite, il calore unito all’iterazione del gesto consente loro astensioni totali dal reale, riagganciano il destino interrotto, una palafitta, un lurido mercato di semi e capre. A volte mi mostravano le fotografie dei loro figli, io guardavo quei musi messi in posa, incalliti di povertà.”

“Sentii il caldo della sua mano. Era quello che facevo da solo quando non riuscivo a dormire. La sua mano era liscia come farina. E non timida. Non era la mia mano, era un’altra storia. La stessa dolcezza, lo stesso vigore di quando arrotolava il tubo dell’acqua in cortile.”

“Sapevo che è sempre così, volti inutili diventano stampe indelebili e le persone che ami misteriosamente hanno il viso bruciato.”

“Tutte le relazioni d’amore nascono da una mancanza, ci immoliamo a qualcuno che semplicemente sa accomodarsi in questo spazio aperto e dolorante per farne quello che vuole: farci del bene oppure distruggerci. “

“Lo perdo perché si disperde tra gli altri. Dev’essere questo il senso di questa comunità, mischiarsi e approdare insieme. Una piazza di uccelli che si muovono all’unisono, si sollevano, si disperdono. <...> È un gesto che tutti fanno in questo posto, accolgono, tengono una mano su una spalla, su una testa. Ma io non avverto un vero calore umano, solo lo strofinio delle bestie quando entrano nella stalla e si scaldano, si accumulano.”


mercoledì 2 aprile 2014

Il seno di Philip Roth

Copertina di Il seno

Grottesco
Nonostante sia un libro brevissimo non sono riuscita a leggerlo, o meglio l'ho leggiucchiato con la tecnica del saltello.
Il grottesco mescolato al surreale non è il mio genere, nemmeno se a scriverlo è un genio letterario.
Mi dispiace che il mio primo approccio con Philip Roth non sia stato dei migliori ma questa parentesi negativa non mi farà desistere dal provare a leggere qualcos'altro di questo scrittore. 


Ovunque io sia di Romana Petri



Bello, punto e basta.
Difficile dare un giudizio distaccato su questo libro, è talmente coinvolgente che risulta impossibile rimanere indifferenti.
È semplicemente un romanzo molto bello, privo forse di uno spessore letterario elevato ma dotato di capacità di coinvolgere il lettore. Durante le prime 30 pagine mi sono sentita abbracciare, una scrittura che ti invita a soffermarti e non a correre verso il finale.
È stato facile da leggere, non perché sia superficiale , bensì perché impegnativo soprattutto a livello emozionale piuttosto che concettuale.
Un romanzo che non ha la pretesa di essere altro da sé, che ti porta a far parte della vita dei tanti personaggi che lo abitano e questi entrano a far parte della tua, diventano reali, e diventano reali le loro sofferenze che diventano le tue, e una volta finito sei stupita di non avere più intorno a te chi lo ha popolato, coloro che ormai conosci come se fossero amici.
606 pagine scritte fitte, senza punti morti, senza parti noiose. Un libro che pur non volendo insegnarti nulla parla diretto ai sentimenti e non criminalizza nemmeno troppo le figure negative mostrando aspetti ambivalenti di ogni protagonista. Si raccontano vite, vite non facili, forse un po' troppo tragiche ma non fuori dalla realtà.

Citazioni

"La vita non è altro che le tante cose che accadevano. E'così per tutti pensò tra se, e solo all'idea di essere come gli altri, si sentì piena di un orgoglio mai provato prima."

"E poi non siamo tutti uguali. Anche i dolori, sai, non è che si possono misurare con la bilancia o con il centimetro. Ognuno porta il peso che può."

"Era un uomo totalmente esterno, ogni cosa in lui era evidente, sembrava che i pensieri li rendesse parola ancora prima di averli terminati."

"Le cose finiscono solo quando finiscono, ma fino a che non finiscono noi siamo qui. Pensarlo conta molto. Bisogna solo avere un'altra concezione del tempo. Se tornando a casa penserà "io sono qui" si sentirà molto meglio di quanto si sentirebbe se dovesse cominciare a chiedersi "per quanto tempo ci sarò ancora?""

mercoledì 26 marzo 2014

Un'esperienza personale di Kenzaburo Ōe

Copertina di Un'esperienza personale

*** Attenzione: di seguito anticipazioni sulla trama (SPOILER) ***


Disturbante.
 
Questo è un romanzo che probabilmente, se non lo avessi affrontato con il gruppo di lettura su Twitter, avrei abbandonato dopo i primi capitoli.
Mi è piaciuto? No.
Questo non significa che il libro non sia valido dal punto di vista letterario, sicuramente l’autore ha la grande capacità di trasmettere le emozioni e le apatie provate dal personaggio principale, la scrittura è fluida e con pochissimi punti morti.
L’argomento non è dei più leggeri.
L’arrivo di un figlio “anormale”mette in crisi un padre che forse non era preparato nemmeno a riceverne uno sano di figli, e che a dire il vero non si presentava adeguato nemmeno per una vita matrimoniale o lavorativa.
Il protagonista è fondamentalmente un egoista immaturo che insegue il miraggio dell’Africa intesa come libertà dalla sua vita insoddisfacente e costrittiva.
L’arrivo di un figlio con una malformazione cerebrale fa scendere agl’inferi il padre (Tori-bird) che si troverà a fare i conti con tutte le parti più disgustose della sua personalità.
Tori-bird farà un’incursione nel marciume più nero che lo porterà poi ad una risalita alla superficie come uomo nuovo, più maturo e consapevole.
A non piacermi non è stato certo il messaggio che alla fine si riceve dal libro, bensì il dovermi trovare faccia a faccia con le miserie del protagonista, che in certi passaggi mi hanno nauseata, indignata, offesa. Ho trovato orrendo il modo in cui la moglie viene lasciata fuori da qualsiasi decisione, tenuta all’oscuro perfino della malformazione del figlio; ho trovato orrende le perversioni sessuali di Tori-bird che oscillano tra il sadismo e il masochismo; ho trovato orribile la decisione iniziale del padre di far morire di consunzione il piccolo senza nemmeno tentare di operarlo.
Ma ciò che mi ha disturbato non è solo relativo a Tori-bird.
Ho trovato osceno il modo dei medici di approcciarsi al genitore definendo il bambino “la cosa”, così come non ho potuto soffrire l’indifferenza vera o apparente (insita forse nel modo di fare giapponese?) degli altri familiari o degli amici e colleghi del protagonista.
E’ stata una lettura spiacevole, infarcita sapientemente di pensieri e atteggiamenti miserabili che fanno male, forse perchè troppo realistici.
Un libro scritto in modo asciutto, crudo ma a tratti poetico.
Un’argomento spinoso affrontato in modo non banale.
Tuttavia, pur riconoscendo i giusti meriti all’autore, posso affermare serenamente che Kenzaburo non fa per me.

Per le citazioni rimando direttamente alla pagina della Twittlettura.




 

venerdì 21 marzo 2014

Gli indifferenti di Alberto Moravia

Copertina di Gli indifferenti

Pesante (3,2 stelle) 
Dopo aver letto “La disubbidienza” ed averlo apprezzato molto mi sono apprestata a leggere l’opera prima di Moravia con una disposizione forse troppo carica di aspettative. Le opere prime raramente sono perfette, e seppur a livello letterario si parli sicuramente di ottimo romanzo, forse in alcuni passaggi si percepisce l’acerbità dello scrittore.
Nel definire Moravia acerbo voglio specificare  che si tratta di un uso dell’aggettivo molto relativo, il linguaggio usato e la lucidità di osservazione dei personaggi denotano comunque una maturità sopra la media. Per l’epoca in cui è stato scritto credo che si possa considerare questo romanzo piuttosto scabroso, forse in certi ambienti era normale comportarsi in un determinato modo, ma trovarselo sbattuto in faccia dalle pagine di un libro è un’altra cosa.
La storia è irritante, i protagonisti insopportabili e non se ne salva uno, nemmeno colui che pareva avere un minimo di istinto ad affrancarsi dalla cosiddetta “indifferenza”.
Più si va avanti nella lettura e più la narrazione diventa ripetitiva e soffocante e più verrebbe voglia di prendere tutti a schiaffi per come buttano via la vita nella nullafacenza.
Le parole più usate sono “indifferenza” e “disgusto”come sintomi dell’apatia dei fratelli Michele e Carla; ammetto che spesso non sono riuscita proprio a calarmi nelle sensazioni provate dai protagonisti che sembrano avvolti in una depressione costante, un’anestesia morale e mentale, e mi è stato proprio impossibile capire certi atteggiamenti così lontani dal mio modo di vedere la vita.
E’ stata una lettura faticosa, non piacevole, da metà libro in poi non vedevo l’ora di finirlo per terminare questo supplizio d’inconcludenza e vacuità.
Se Moravia voleva destare sentimenti claustrofobici e disturbanti nel lettore  è riuscito nella missione.

Citazioni:

“ ...non sapeva odiare un uomo che a malavoglia invidiava.”

“ E’ mai possibile che ella non senta che si può essere meglio di così?”

“...un’intollerabile disgusto di questa sua versatile indifferenza che gli permetteva di cambiare ogni giorno, come altri il vestito, le proprie idee e i propri atteggiamenti.”



giovedì 20 marzo 2014

L'amica geniale di Elena Ferrante

Copertina di L'amica geniale

Chi è geniale? Chi possiede acutezza innata ma finisce per sprecarla facendo scelte infelici oppure chi sfrutta appieno la propria intelligenza normale per migliorarsi? Questa è la domanda che mi ha lasciato il libro di Elena Ferrante.
La storia di Lila e Lenu senza dubbio si legge agevolmente fatta eccezione per la quantità enorme di personaggi che spesso mi hanno confusa, soprattutto a causa della mia scarsa memoria, lo ammetto. Si tratta di un bel romanzo nel senso sostanziale del termine, in quanto contiene gli ingredienti giusti per avvincere il lettore: c’è il racconto appassionante di un’amicizia, i personaggi sono abbastanza ben delineati, c’è la fotografia di una Napoli anni ’50, c’è una sorta di spiegazione di certe dinamiche di violenza verbale e fisica e della condizione femminile di quell’ epoca e di quel luogo. I componenti essenziali non fanno difetto, ma a mio parere, il libro non va oltre una piacevole lettura. Manca un respiro più elevato che lo innalzi da semplice romanzo ad opera letteraria destinata a diventare un “classico”.
Avevo letto recensioni entusiastiche in merito a questa storia, recensioni che avevano creato una forte aspettativa in me, e forse questo ha giocato a sfavore della Ferrante, quanto più alte sono le attese e quanto più facciamo le pulci all’autore ed ai suoi libri. Senza dubbio ciò che ho apprezzato maggiormente è stata la semplicità con cui l’autrice ha reso l’idea di come fosse ( e forse di come sia tuttora) la vita in certi rioni di Napoli, senza ammantare di poesia ciò che poetico non è, semplicemente raccontando la realtà attraverso gli occhi di Lenu prima bambina e poi adolescente.
Mentre leggevo mi sono trovata più volte a pensare che “L’amica geniale” sarebbe adatto alla trasposizione in una mini serie per la tv, ecco, l’ho trovato estremamente televisivo, e credo che un bravo regista potrebbe trarne un’ottimo prodotto per il grande pubblico, ovviamente utilizzando la trilogia al completo. Perchè se non lo sapete, dopo aver letto “L’amica geniale” vi aspettano altri due tomi in cui la storia continua ( “Storia del nuovo cognome” e “Storia di chi fugge e di chi resta”) anche se devo ammettere che in fin dei conti il romanzo potrebbe anche concludersi così, con Lila e Lenu che salutano l’adolescenza e si avviano ad una nuova vita. 

Riporterò alcuni passi che mi sembrano significativi: 

“Non ho nostalgia della nostra infanzia, è piena di violenza. Ci succedeva di tutto, in casa e fuori, ogni giorno, ma non ricordo di aver mai pensato che la vita che c'era capitata fosse particolarmente brutta. La vita era cosi e basta, crescevamo con l'obbligo di renderla difficile agli altri prima che gli altri la rendessero difficile a noi.” 

“Certo, a me sarebbero piaciuti i modi gentili che predicavano la maestra e il parroco, ma sentivo che quei modi non erano adatti al nostro rione, anche se eri femmina. Le donne combattevano tra loro piu degli uomini, si prendevano per i capelli, si facevano male. Far male era una malattia.” 

“C'era qualcosa di insostenibile nelle cose, nelle persone, nelle palazzine, nelle strade, che solo reinventando tutto come in un gioco diventava accettabile.” 

“Non sapevamo niente, a quasi tredici anni, di istituzioni, leggi, giustizia. Ripetevamo, e casomai facevamo con convinzione, quello che avevamo sentito e visto intorno a noi fin dalla prima infanzia. La giustizia non si realizzava a mazzate?” 

“La plebe eravamo noi. La plebe era quel contendersi il cibo insieme al vino, quel litigare per chi veniva servito per primo e meglio, quel pavimento lurido su cui passavano e ripassavano i camerieri, quei brindisi sempre più volgari. La plebe era mia madre, che aveva bevuto e ora si lasciava andare con la schiena contro la spalla di mio padre, serio, e rideva a bocca spalancata per le allusioni sessuali del commerciante di metalli. Ridevano tutti, anche Lila, con l'aria di chi ha un ruolo e lo porta fino in fondo.” 

mercoledì 12 marzo 2014

Storia di Irene di Erri De Luca

Copertina di Storia di Irene

Poetico e surreale (3,4 stelle) 
Sono un'estimatrice di Erri De Luca, ma questa breve raccolta di racconti non ha soddisfatto le mie aspettative.
Lo stile, forse più poetico di altri suoi libri, a tratti mi è rimasto un po' pesante. Probabilmente non essendo appassionata di poesia ritrovarne un eccesso in una prosa mi disturba un po', specie se associato ad una storia surreale come quella del primo racconto.
La prima novella,"Storia di Irene", è la più lunga delle tre e quella che caratterizza il libro, ma mi è piaciuta meno delle altre.
Ho preferito di gran lunga l'ultima narrazione,"Una cosa molto stupida", brevissima ma intensa, una piccola perla di tristi verità e di una piccolissima grande gioia finale.
Resta fermo il punto che De Luca è e rimane un grande raccontatore, con il suo modo inconfondibile di scrivere e di pensare. Le sue storie non sono mai vuote, comunicano sempre una comprensione di ciò che è altro da sé, un impegno civile nella difesa degli indifesi e della terra, uno sguardo aperto sulle cose.
Sia che parli di realtà o di fantasia nel modo di raccontare di De Luca c'è sempre implicito un messaggio, anche quando apparentemente chi racconta non sembra coinvolto.

Citazioni:
"...la sua presenza è di striscio. Badano a lei come a un'ombra sul muro." 

"Faccio il conducente di storie." 

"Qualcuno è andato a strascico sul fondo. Dopo il passaggio lascia deserto. Il mare non può essere arato." 

"...la vita che aspettava un'ora di felicità per togliere il disturbo."