lunedì 30 dicembre 2013

Babbitt di Sinclair Lewis

Copertina di Babbitt

*** Attenzione: di seguito anticipazioni sulla trama (SPOILER) ***

Medio-man 
Mi sento un po’ come Alice nel Paese delle meraviglie quando mi ritrovo a scoprire capolavori del passato così per caso.
Ho trovato “Babbitt” in uno scatolone di libri regalatomi da un amico che voleva liberarsene e fin dall’inizio della lettura ho capito che si trattava di un’opera di altissima qualità.
Per tutta la durata della lettura ho dovuto continuamente ricordare a me stessa la data in cui è stato scritto (il 1922!!!) perchè l’attualità dei temi e la modernità con cui vengono descritti mi suggeriva la contemporaneità.
Ma non è la prima volta rimango stupita dall’attualità di opere del passato, più ne leggo e più ho la conferma che, nonostante piccolissimi passi, l’uomo rimane tale e quale nei suoi pregi e nei suoi difetti nel corso della storia e che le situazioni corrono e ricorrono all’infinito.
Fermandosi ad un mero resoconto degli accadimenti la trama potrebbe sembrare noiosa, perchè in effetti nelle molte pagine usate alla fin fine non è che succeda poi molto, potremmo ridurre il succo del racconto alla classica crisi di mezza età di un uomo borghese, che per un breve periodo “da fuori di melone” uscendo dalla sua solita routine di perbenismo per poi alla fine tornare ad impersonare il suo bravo copione da cittadino modello.
Ma questo libro è molto di più!
Intorno a Giorgio Babbitt ruotano una serie di personaggi che contribuiscono a creare un’immagine vivida della situazione socio-politica dell’America dei primi del ‘900 divisa essenzialmente i tre tipologie: conservatori, liberali e laburisti.
Non mancano descrizioni anche sulle varie correnti e sette religiose derivanti tutte teoricamente dal cristianesimo ma che alla fine di cristiano hanno ben poco.
Per non parlare del quadro che emerge sulla condizione-funzione della donna intesa soprattutto come brava moglie borghese, che in fin dei conti, in certi ambienti, pare mutata di poco anche oggi giorno.
Leggendo questo romanzo si ha la netta percezione di come una certa America degli anni ’20 fosse diversa dall’Italia, o almeno dalla maggior parte dell’Italia della stessa epoca. Mentre mia nonna scaldava il letto in una gelida camera con il caldano a brace il nostro protagonista aveva un riscaldamento dove “ il numero degli elementi del radiatore era in esatta proporzione con la capacità cubica della camera” (cit.) e nella sala da pranzo aveva “delle spine per la macchina del caffè espresso e per quella per abbrustolire il pane” (cit.).
Il racconto, seppur lungo, scorre molto bene, salvo alcuni passaggi coincidenti più che altro coi “discorsi da bar” fra gli uomini del club, che mi sono risultati un po’ pesanti, tuttavia la lunghezza del romanzo è ampiamente giustificata dal toccare in modo più o meno approfondito molti argomenti sociali.
Sinclair Lewis ci fa conoscere il nostro protagonista fin da subito nella sua normalità, un uomo mediocre dotato tuttavia di alcune capacità notevoli come la capacità oratoria grazie alla quale riesce ad ottenere una sorta di fama, un uomo che viene collocato in una fascia ben precisa della popolazione, quella media appunto. I suoi tentativi di elevarsi socialmente falliscono miseramente nell’indifferenza dell’aristocratico di turno, indifferenza e condiscendenza che lui a sua volta riserva ad altri che vogliono entrare a far parte del suo mondo borghese. Una ruota che gira dove alla fine ognuno deve rimanere incasellato nel proprio ruolo sociale al fine di evitare spiacevoli situazioni. Ed il ruolo sociale del buon vecchio Giorgio è quello del borghese moralmente ineccepibile.
La cosa che mi ha quasi sconvolta è che il borghese perbene proposto come modello di virtù americana ben poco si discosta dal modello del bravo tedesco di razza ariana proposto da Hitler più o meno nello stesso periodo, e peggio ancora a modelli proposti ancora oggi da alcune correnti politiche.
Ecco alcuni “pensieri da bravo borghese americano” riportati nel libro:
“Il nostro Cittadino ideale me lo figuro sempre attivo e affaccendato come una formica...” “Dal punto di vista politico e religioso, questo Buon Cittadino ha le idee più chiare del mondo, e in fatto di arte ha un buon gusto naturale che gli permette di scegliere sempre tutto ciò che vi è di meglio” “...il nostro cittadino standardizzato anche se celibe è amico dei bambini, è un sostenitore del focolare domestico...” “...i prototipi del Cittadino Americano Standardizzato”
“La peggior minaccia per una sana forma di governo non è nel socialismo dichiarato, ma in quella banda di vigliacchi che lavorano sott’acqua,< ...> I liberali, i radicali, gli agnostici, l’intellighentia <...> quei maestri e professori privi di ogni senso di responsabilità <...>questi professori sono vipere che bisogna sterminare, essi, ed ogni loro seme e discendenza.” “Dovremmo metterci tutti d’accordo e far capire al negro, sissignori, e poi anche ai gialli, qual’è il loro vero posto. Vi assicuro che non ho il più piccolo pregiudizio di razza. Sono il primo a rallegrarmi se un negro riesce a far qualcosa di buono, purchè se ne stia al suo posto e non cerchi di usurpare la giusta autorità e l’abilità commerciale del bianco.”
(cit.)
L’autore ci fa capire chiaramente che l’ambiente in cui si muove il suo protagonista è solo una parte della realtà americana, una sorta di bolla lontana da molte altre situazioni altrettanto reali e infinitamente lontane dal perbenismo dei circoli e club e dalla casa in cui “nessun segno esteriore rivelava che qui della gente avesse mai vissuto e amato” (cit.) ma non è di queste realtà parallele che si parla nel libro, qui vengono solo accennate, quasi esclusivamente per contrapposizione.
Ed è da tutta questa borghesia americana che piano piano il protagonista si discosta, è come se si risvegliasse da un torpore di comodità in cui è sempre vissuto, come se finalmente vedesse le cose attraverso i suoi occhi e non più attraverso le lenti vincolanti del bravo cittadino, ma non diventa un eroe. Si limita semplicemente a fare piccole trasgressioni frenate sempre dalla sua pavidità, ostacolate dalla realtà del fatto che non puoi uscire semplicemente da un mondo senza entrare in un altro forse più difficile e scomodo, o sei dentro o sei fuori, e alla fine stare fuori risulta troppo doloroso e faticoso, e così alla fine, non resistendo al suo assassinio sociale, alla sua esclusione dalla società rispettabile, il bravo Babbitt, troppo mediocre per fare l’eroe, tornerà nei ranghi rinnegando le verità più profonde che si affacciavano nella sua vita.
Se di “Babbitt” si fosse fatto un film avrei visto come protagonista d’eccellenza Alberto Sordi, così bravo nel portare alla ribalta l’uomo medio, capace di grandi voli e di rovinose cadute, l’uomo capace di passare dagli slanci interiori ai retromarcia di comodo, l’uomo anti-eroe che non ha la forza di combattere in nome di se stesso contro una società conformista.
Un libro che lascia l’amaro in bocca, perché la speranza di una modifica comportamentale consapevole e duratura viene delusa, lasciando seppure uno spiraglio positivo con il discorso finale del protagonista al figlio:
“...la verità è che nella vita non ho mai fatto una sola cosa di ciò che vrei voluto fare. Mi pare che tutto ciò che ho fatto è stato di tirare avanti e basta. <...> quella gente là dentro cercherà di domarti e sopraffarti. Mandali al diavolo! Ti difenderò io.” (cit.)

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