lunedì 30 dicembre 2013

Babbitt di Sinclair Lewis

Copertina di Babbitt

*** Attenzione: di seguito anticipazioni sulla trama (SPOILER) ***

Medio-man 
Mi sento un po’ come Alice nel Paese delle meraviglie quando mi ritrovo a scoprire capolavori del passato così per caso.
Ho trovato “Babbitt” in uno scatolone di libri regalatomi da un amico che voleva liberarsene e fin dall’inizio della lettura ho capito che si trattava di un’opera di altissima qualità.
Per tutta la durata della lettura ho dovuto continuamente ricordare a me stessa la data in cui è stato scritto (il 1922!!!) perchè l’attualità dei temi e la modernità con cui vengono descritti mi suggeriva la contemporaneità.
Ma non è la prima volta rimango stupita dall’attualità di opere del passato, più ne leggo e più ho la conferma che, nonostante piccolissimi passi, l’uomo rimane tale e quale nei suoi pregi e nei suoi difetti nel corso della storia e che le situazioni corrono e ricorrono all’infinito.
Fermandosi ad un mero resoconto degli accadimenti la trama potrebbe sembrare noiosa, perchè in effetti nelle molte pagine usate alla fin fine non è che succeda poi molto, potremmo ridurre il succo del racconto alla classica crisi di mezza età di un uomo borghese, che per un breve periodo “da fuori di melone” uscendo dalla sua solita routine di perbenismo per poi alla fine tornare ad impersonare il suo bravo copione da cittadino modello.
Ma questo libro è molto di più!
Intorno a Giorgio Babbitt ruotano una serie di personaggi che contribuiscono a creare un’immagine vivida della situazione socio-politica dell’America dei primi del ‘900 divisa essenzialmente i tre tipologie: conservatori, liberali e laburisti.
Non mancano descrizioni anche sulle varie correnti e sette religiose derivanti tutte teoricamente dal cristianesimo ma che alla fine di cristiano hanno ben poco.
Per non parlare del quadro che emerge sulla condizione-funzione della donna intesa soprattutto come brava moglie borghese, che in fin dei conti, in certi ambienti, pare mutata di poco anche oggi giorno.
Leggendo questo romanzo si ha la netta percezione di come una certa America degli anni ’20 fosse diversa dall’Italia, o almeno dalla maggior parte dell’Italia della stessa epoca. Mentre mia nonna scaldava il letto in una gelida camera con il caldano a brace il nostro protagonista aveva un riscaldamento dove “ il numero degli elementi del radiatore era in esatta proporzione con la capacità cubica della camera” (cit.) e nella sala da pranzo aveva “delle spine per la macchina del caffè espresso e per quella per abbrustolire il pane” (cit.).
Il racconto, seppur lungo, scorre molto bene, salvo alcuni passaggi coincidenti più che altro coi “discorsi da bar” fra gli uomini del club, che mi sono risultati un po’ pesanti, tuttavia la lunghezza del romanzo è ampiamente giustificata dal toccare in modo più o meno approfondito molti argomenti sociali.
Sinclair Lewis ci fa conoscere il nostro protagonista fin da subito nella sua normalità, un uomo mediocre dotato tuttavia di alcune capacità notevoli come la capacità oratoria grazie alla quale riesce ad ottenere una sorta di fama, un uomo che viene collocato in una fascia ben precisa della popolazione, quella media appunto. I suoi tentativi di elevarsi socialmente falliscono miseramente nell’indifferenza dell’aristocratico di turno, indifferenza e condiscendenza che lui a sua volta riserva ad altri che vogliono entrare a far parte del suo mondo borghese. Una ruota che gira dove alla fine ognuno deve rimanere incasellato nel proprio ruolo sociale al fine di evitare spiacevoli situazioni. Ed il ruolo sociale del buon vecchio Giorgio è quello del borghese moralmente ineccepibile.
La cosa che mi ha quasi sconvolta è che il borghese perbene proposto come modello di virtù americana ben poco si discosta dal modello del bravo tedesco di razza ariana proposto da Hitler più o meno nello stesso periodo, e peggio ancora a modelli proposti ancora oggi da alcune correnti politiche.
Ecco alcuni “pensieri da bravo borghese americano” riportati nel libro:
“Il nostro Cittadino ideale me lo figuro sempre attivo e affaccendato come una formica...” “Dal punto di vista politico e religioso, questo Buon Cittadino ha le idee più chiare del mondo, e in fatto di arte ha un buon gusto naturale che gli permette di scegliere sempre tutto ciò che vi è di meglio” “...il nostro cittadino standardizzato anche se celibe è amico dei bambini, è un sostenitore del focolare domestico...” “...i prototipi del Cittadino Americano Standardizzato”
“La peggior minaccia per una sana forma di governo non è nel socialismo dichiarato, ma in quella banda di vigliacchi che lavorano sott’acqua,< ...> I liberali, i radicali, gli agnostici, l’intellighentia <...> quei maestri e professori privi di ogni senso di responsabilità <...>questi professori sono vipere che bisogna sterminare, essi, ed ogni loro seme e discendenza.” “Dovremmo metterci tutti d’accordo e far capire al negro, sissignori, e poi anche ai gialli, qual’è il loro vero posto. Vi assicuro che non ho il più piccolo pregiudizio di razza. Sono il primo a rallegrarmi se un negro riesce a far qualcosa di buono, purchè se ne stia al suo posto e non cerchi di usurpare la giusta autorità e l’abilità commerciale del bianco.”
(cit.)
L’autore ci fa capire chiaramente che l’ambiente in cui si muove il suo protagonista è solo una parte della realtà americana, una sorta di bolla lontana da molte altre situazioni altrettanto reali e infinitamente lontane dal perbenismo dei circoli e club e dalla casa in cui “nessun segno esteriore rivelava che qui della gente avesse mai vissuto e amato” (cit.) ma non è di queste realtà parallele che si parla nel libro, qui vengono solo accennate, quasi esclusivamente per contrapposizione.
Ed è da tutta questa borghesia americana che piano piano il protagonista si discosta, è come se si risvegliasse da un torpore di comodità in cui è sempre vissuto, come se finalmente vedesse le cose attraverso i suoi occhi e non più attraverso le lenti vincolanti del bravo cittadino, ma non diventa un eroe. Si limita semplicemente a fare piccole trasgressioni frenate sempre dalla sua pavidità, ostacolate dalla realtà del fatto che non puoi uscire semplicemente da un mondo senza entrare in un altro forse più difficile e scomodo, o sei dentro o sei fuori, e alla fine stare fuori risulta troppo doloroso e faticoso, e così alla fine, non resistendo al suo assassinio sociale, alla sua esclusione dalla società rispettabile, il bravo Babbitt, troppo mediocre per fare l’eroe, tornerà nei ranghi rinnegando le verità più profonde che si affacciavano nella sua vita.
Se di “Babbitt” si fosse fatto un film avrei visto come protagonista d’eccellenza Alberto Sordi, così bravo nel portare alla ribalta l’uomo medio, capace di grandi voli e di rovinose cadute, l’uomo capace di passare dagli slanci interiori ai retromarcia di comodo, l’uomo anti-eroe che non ha la forza di combattere in nome di se stesso contro una società conformista.
Un libro che lascia l’amaro in bocca, perché la speranza di una modifica comportamentale consapevole e duratura viene delusa, lasciando seppure uno spiraglio positivo con il discorso finale del protagonista al figlio:
“...la verità è che nella vita non ho mai fatto una sola cosa di ciò che vrei voluto fare. Mi pare che tutto ciò che ho fatto è stato di tirare avanti e basta. <...> quella gente là dentro cercherà di domarti e sopraffarti. Mandali al diavolo! Ti difenderò io.” (cit.)

martedì 24 dicembre 2013

Sofia si veste sempre di nero di Paolo Cognetti

Copertina di Sofia si veste sempre di nero

La distanza di Sofia


I continui salti temporali tengono desta l’attenzione del lettore.
Presente, futuro e passato si alternano nei vari capitoli strutturati come veri e propri racconti a se stanti, costringendoti a collegarli tra loro per ottenere un romanzo completo.
Così facendo si scoprono piano piano Sofia ed i membri della sua famiglia, si scoprono ma non troppo, perchè alla fine la sensazione che mi rimane è di non aver creato nessun legame con i personaggi, di non averli capiti e conosciuti profondamente.
Cognetti è bravo, di una bravura che appare costruita a tavolino, molto tecnica.
In pittura ci sono dipinti che piacciono per la loro perfezione tecnica ma che non emozionano, e ci sono dipinti che invece nella loro imperfezione stilistica ti arrivano all’anima. Ecco, se questo libro di Cognetti fosse un quadro apparterrebbe sicuramente alla prima categoria, costruito molto bene ma incapace di arrivare a toccare le corde più profonde, e questo dispiace perchè da un’autore con simili doti si vuole di più.

Rilettura
Dicembre 2013.
Su Twitter inizia la twittlettura di questo libro sull'account @TwoReaders alla quale partecipo postando citazioni spesso abbinate ai miei dipinti.
Durante questo secondo passaggio sul libro ho avuto modo di apprezzare meglio alcune sue doti ma continua a mancarmi l'empatia con la protagonista., e forse dopo la seconda lettura  ho capito cosa non mi è piaciuto di Sofia: se fosse stata mia amica mi avrebbe fatto soffrire.

Links:
- Sofia si veste sempre di nero di Paolo Cognetti 
- Twittlettura e Arte

Citazione pag.182

lunedì 23 dicembre 2013

I fantasmi di pietra di Mauro Corona

Copertina di I fantasmi di pietra

Nel titolo c'è tutto. 
 
Dispiace abbandonare un libro dopo un centinaio di pagine ma dispiace altrettanto proseguire la lettura quando ci si accorge di essere impossessati dalla noia.
Non posso affermare che "I fantasmi di pietra" sia scritto male, il linguaggio è né troppo semplice né troppo complesso, ma forse, visto l'argomento, era auspicabile una struttura diversa.
Una lunga passeggiata nel passato, ruderi di case con le loro storie e le storie di chi le ha abitate, dei veri e propri fantasmi di pietra come ci avvisa il titolo.
Tutto questo sarebbe anche poetico se non diventasse troppo ripetitivo. Una sequela di personaggi con le loro vicende, forse troppo simili a quelle che ho sempre sentito raccontare in famiglia per apprezzarle con interesse, o forse sono semplicemente troppe e disposte troppo in fila indiana, una dietro l'altra.
Credo che una costruzione del racconto meno lineare avrebbe reso lo snodarsi del libro più coinvolgente e meno noioso ai miei occhi.

martedì 17 dicembre 2013

Gli sdraiati di Michele Serra

Copertina di Gli sdraiati

Michele Serra ha esagerato. ( 4,5 stelle) 
Poteva essere un libro bellissimo, ma diciamocelo, ha voluto strafare inserendo la storia di Brenno Alzheimer nel silenzioso colloquio del padre con il figlio adolescente. 
Serra ha infilato un racconto nel racconto. La novella sulla guerra tra i giovani e i vecchi, vagamente surreale e metaforica, poteva essere un libro a sé, con vita propria, inserita in questo libro ha invece rovinato il ritmo dei capitoli, abilmente punteggiati dalle richieste del genitore allo “sdraiato” di condividere una passeggiata in montagna. 
Se facessi finta che Brenno Alzheimer non si fosse affacciato in questa narrazione potrei considerare “Gli sdraiati” quasi un capolavoro, dove il sapiente linguaggio dell’autore e la sua amara ironia riescono a fondere tra loro e a farli emergere l’amore paterno ed una visione disincantata del mondo. 
Serra ha dato vita ad una fotografia senza illusioni sul pianeta in cui fluttuano gli adolescenti, ha evidenziato impietosamente le difficoltà dei rapporti tra generazioni, ci ha fornito una radiografia dell’universo in cui abitano questi giovani massificati disposti a file chilometriche per comprare una felpa, un universo che però è stato creato per loro dagli adulti, ad uso e consumo di chi giovane non è più e tira le fila del marketing della vita. 
Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare e nonostante la scrittura puntuta e satirica di Serra questo non è un libro allegro, è una storia che mette il dito nella piaga, anzi in molte piaghe, e a meno che non lo si voglia leggere con estrema leggerezza, la drammaticità che ne traspare appare evidente. 
Tuttavia il finale è comunque positivo, anche perchè effettivamente l’adolescenza dura qualche anno, e prima o poi lo sdraiato cresciuto tornerà ad avvicinarsi al padre, ci sarà una nuova possibilità di comprensione tra i due mondi paralleli, e questo l’autore lo sa.

Citazioni: 

“L’amore naturale che si porta ai figli bambini non è un merito. Non richiede capacità che non siano istintive. <...> È anni dopo, è quando tuo figlio (l’angelo inetto che ti faceva sentire dio perché lo nutrivi e lo proteggevi: e ti piaceva crederti potente e buono) si trasforma in un tuo simile, in un uomo, in una donna, insomma in uno come te, è allora che amarlo richiede le virtù che contano. La pazienza, la forza d’animo, l’autorevolezza, la severità, la generosità, l’esemplarità... troppe, troppe virtù per chi nel frattempo cerca di continuare a vivere.” 

“Ripenso con rimpianto a quella felice marginalità infantile, a quella pre-vita così densa di profumi, di beate solitudini, di tempo vuoto e silenzioso, quando assisto alle omissioni o alle complicità degli adulti, nei ristoranti, di fronte a schiamazzi e corse forsennate dei loro piccoli cari, resi isterici da una promiscuità imposta e priva di qualunque assetto, di qualunque educazione. O quando assisto al triste esibizionismo di bambini che la volgarità sentimentale dei genitori trasforma in miniature di adulti, scaraventati in pasto alla loro acerba vanità e al voyeurismo infanticida dei grandi.” 

“Chiedo che sia messo agli atti: una coda di tre ore per entrare in un negozio di felpe. (In tre ore, camminando in montagna, si cambia vallata.) L’età degli umani in coda davanti a Polan&Doompy, ambosessi, era compresa tra i dodici e i venti. Una massa impressionante e docile di carne fresca, ben nutrita, ben curata, che avrebbe fatto la gioia di un mercante di schiavi, di un reclutatore di soldati, del capo del personale di una catena di bordelli dotata di un rilevante reparto pedofili.” 

“Non che conti molto, per te, il fatto che mi piaccia o non mi piaccia. Peggio: se mi piace, rischia di smettere di piacerti. Così mi guardo bene dal comunicare approvazione per questo tuo stravagante interludio. “ 

“Dopotutto siete arrivati in un mondo che ha già esaurito ogni esperienza, digerito ogni cibo, cantato ogni canzone, letto e scritto ogni libro, combattuto ogni guerra, compiuto ogni viaggio, arredato ogni casa, inventato e poi smontato ogni idea... e pretendere, in questo mondo usato, di sentirvi esclamare “che bello!”, di vedervi proseguire entusiasti lungo strade già consumate da milioni di passi, questo no, non ce lo volete – potete, dovete – concedere. Il poco che riuscite a rubare a un mondo già saccheggiato, ve lo tenete stretto. Non ce lo dite, “questo mi piace”, per paura che sia già piaciuto anche a noi. Che vi venga rubato anche quello.) “
Ragazzo in sala d'aspetto (lo sdraiato)

lunedì 16 dicembre 2013

Il senso di una fine di Julian Barnes

Copertina di Il senso di una fine

Il soccorso dei recensori professionisti
“Il senso di una fine” è uno di quei libri che quando inizi a leggerli pensi “è bellissimo” e che quando arrivi in fondo ti senti inadeguata e pensi che la colpa sia tua se quel “bellissimo” non lo senti più vivo come nelle prime pagine.
Procediamo per ordine, il libro nell’insieme è bello ma non è da annoverare tra i capolavori, è diviso in due parti, non entrambe purtroppo allo stesso livello. Insomma, è un capolavoro mal riuscito.
Si passa da un registro molto filosofico riflessivo nella prima parte ad uno stile quasi da thriller con tanto di colpo di scena finale nella seconda, che tanto colpo comunque a me non è sembrato. Son tornata indietro a rileggere le pagine, perché sicuramente ero io, povera lettrice media, incapace di comprendere certe cose e di apprezzarle, ma senza esito positivo. E qui sono arrivati in mio soccorso Christian Raimo e Franco Cordelli con le loro recensioni illuminanti che mi hanno rinfrancata non poco e di cui riporto i link alla fine di questo commento. Sì, perchè quando mi trovo perplessa, prima di scrivere un commento su un libro letto, vado a leggermi le recensioni di chi mastica la letteratura veramente, e non per scopiazzare sia ben chiaro, bensì per trovare conforto a sensazioni che provo ma non sono in grado di esporre in frasi comprensibili oppure per trovare delucidazioni su parti non digerite del libro in oggetto. Di fatto leggere questi commenti mi ha fatto rendere conto che non sempre sono io, l’incolta lettrice, incapace di comprendere snodi e concetti della storia, ma che a volte è l’autore stesso che si infogna in vicende faraginose e un po’ ruffiane e non riesce ad uscirne alla perfezione.
Chiusa la parentesi sulle recensioni altrui voglio spiegare cosa invece mi è piaciuto di questa storia.
Innanzitutto ho trovato bellissimo l’inizio, affascinanti e misteriosi ricordi in ordine sparso, che poi saranno ampiamente spiegati nel corso della lettura.
Ho trovato bello anche il modo di scrivere, seppur dovendomi fidare come spesso accade della traduttrice, uno stile limpido e scorrevole anche quando tratta di argomenti che potrebbero risultare noiosi.
Mi è piaciuto leggere del tempo e dei ricordi, del valore non univoco di entrambi, di quanto può essere soggettivo un ricordo, selettivo in base a chi lo ricorda, di come certe cose le rimuoviamo dalla nostra memoria, di come la verità possa essere distorta a secondo di chi la racconta e così via. Di materiale interessante per riflettere Julian Barnes ce ne ha dato e se dovessi riportare tutte le frasi che mi hanno interessata sicuramente dovrei usare un bel po’ di spazio.
Nonostante riesca a produrre pensieri interessanti il protagonista non è una simpatia d’uomo, è il contrario dell’eroe, una figura che a me ha trasmesso malinconia perché incarna l’uomo medio, quello in cui la maggior parte di noi alla fine si può riconoscere... ma ammettiamolo, riconoscersi nella mediocrità non è proprio esaltante.

Citazioni:

“ Sono sopravvissuto. Come si dice, <vivere per raccontarla>, giusto? Non è affatto vero che la storia è fatta delle menzogne dei vincitori,...; adesso lo so. E’ fatta più dei ricordi dei sopravvissuti, la maggior parte dei quali non appartiene nè alla schiera dei vincitori nè a quella dei vinti.”

“ ...dovrebbe apparirci ovvio come il tempo per noi non agisca affatto da fissativo, ma piuttosto da solvente. “

“ La mia esistenza si era sviluppata, o solo accumulata?”


Recensione di Christian Raimo
http://www.minimaetmoralia.it/wp/pare-che-il-senso-dell…
Recensione di Franco Cordelli
http://foglianuova.wordpress.com/2012/08/11/risposte-no…

 

giovedì 12 dicembre 2013

Baci a colazione di Gaetano Cappelli

Copertina di Baci a colazione
Il "Novella 2000" della narrativa 
 
Questa è la seconda chance che ho dato a Gaetano Cappelli, il quale  già mi aveva delusa con il racconto "Il falco obeso".
E qui ha fatto il bis.
A nulla servono l'ironico ammiccamento nei confronti del lettore ed il piacevole scorrere del racconto contro la vaquità dei personaggi e della trama.
Storie squallide di persone altrettanto squallide che si aggrovigliano tra di loro.
Questo romanzo è niente di più di un'intreccio scontato raccontato discretamente.
Scritto in modo diverso forse avrebbe potuto essere un bel libro sulle dinamiche editoriali, sulla gente del bel mondo, sulle false sirene di certi ambienti, ma non è stato nulla più di un romanzetto leggero che scivola addosso e che domani avrò già dimenticato.

martedì 10 dicembre 2013

Semplici complessità di Lidice

Copertina di Semplici complessità

Un nuovo Carofiglio? (3,8 stelle)
Leggendo questo romanzo di Lidice la prima cosa che ho pensato è che mi ricorda Gianrico Carofiglio, non tanto nello stile quanto nel saper mescolare nella stessa storia investigazione, amore e riflessioni filosofiche sulla vita.
La forma pur non essendo sciatta è abbastanza semplice, anche quando si trovano riflessioni piuttosto complesse, si capisce che l'autore non cerca il virtuosismo letterario bensì uno stile che arrivi anche al lettore meno colto.
Il titolo "semplici complessità" mi appare emblematico sia della storia raccontata sia della modalità in cui questa è scritta.
Seppur con alcuni piccoli "difetti" il libro nel complesso mi è piaciuto, mi ha appassionata e l'ho letto piacevolmente.
La storia è cadenzata dalle abitudini del protagonista (annusare l'aria, prendere il cibo pronto sempre nello stesso negozio,il secondo caffè al bar...) che ce lo fanno sentire vicino, un uomo normale con la sua routine giornaliera ma anche con le sue elucubrazioni, i suoi malesseri fisici, una persona comune insomma, capace come molti di noi di analizzare i suoi pensieri e volendo anche quelli altrui.
Ho apprezzato anche il modo in cui l'autore ha trattato la storia d'amore sbocciata durante il racconto, senza inutili ciarpami sessuali e senza scadere nel romanzetto rosa ha descritto abbastanza bene due solitudini che si incontrano e che si innamorano.
Concludendo, seppur con alcune piccole ingenuità, nel complesso il libro mi è piaciuto e mi sento di consigliarne la lettura a coloro che cercano una storia semplicemente complessa.

Citazioni:


"Senza motivo si era incupito e non riusciva a saperne la ragione. Gli capitava spesso, in qualsiasi luogo fosse e qualsiasi cosa stesse facendo. Essendoci abituato si mise a rimuginare sulla cosa. In quei momenti era come se tutto quello che era, che era stato e che aveva fatto, non avesse più la minima importanza. Una sensazione di vuoto e di nullità che appariva in un attimo, improvvisa come una paura, ma che restava lì sempre più a lungo. Sapeva che non doveva combatterla, perché sarebbe stato peggio. Sapeva anche che non doveva diventarne schiavo, ma lasciarla passare com’era venuta senza darle peso, soltanto aspettare.<...> Era certo però che quel malessere non se ne sarebbe andato senza aver lasciato un segno. Metteva in lui il seme della melanconia per poi farlo germogliare fino a renderlo incapace di tutto."


"Si rese conto che molto spesso le idee che gli passavano per la testa potevano apparire anche banali, ma sempre con delle specifiche esigenze di percorso. C’era sempre qualcosa che scopriva dentro di se, come se tutto fosse sempre stato lì e che la sua opera più intensa fosse quella di tirarlo fuori."


"Era forse la sua disponibilità ad elaborare, oppure la sua voglia di scrutare e porsi ogni problema come un fattore esistenziale che lo portava a vedere ogni cosa in una forma di ottusità ingestibile."


"Dovremmo ribaltare tutti i concetti, cambiare il nostro modo di vedere le cose, non credere più all’ovvio perché è fondato su altrettante incertezze. Razionale diventava sinonimo di astrattezza e forse il senso assoluto della verità andava ricercato dove si pensava non fosse presente..."


"Lui non si sentiva diverso dagli altri, era diverso dagli altri. La sua diversità l’aveva costruita con cura e con meticolosa determinazione aveva sottratto da se pezzi di vita..."

sabato 7 dicembre 2013

Non esiste saggezza di Gianrico Carofiglio

Copertina di Non esiste saggezza

Malinconia 
In questo libro sono raccolti 10 racconti, non tutti allo stesso livello a parere mio, ma nel complesso il libro è bello e si legge molto bene.
Pur essendo un'amante del genere "corto" penso che Carofiglio renda meglio sul romanzo piuttosto che sul racconto, seppure anche qui si sia difeso bene.
Alcune di queste storie sono surreali, altre invece sembrano prese a prestito dalla quotidiana vita di un poliziotto o di un magistrato e danno la sensazione di essere tratte da fatti realmente accaduti.
Le mie preferite sono la prima, "Non esiste saggezza" (che da il titolo alla raccolta) e l'ultima,"La doppia vita di Natalia Blum" (da cui è stato tratto un episodio della serie Crimini andato in onda in TV nel 2010), entrambe con una protagonista femminile sfuggente e affascinante.
Piacevoli anche "Il maestro di bastone" di cui è protagonista un adolescente e "Il paradosso del poliziotto", conversazione tra un uomo giovane ed un uomo anziano.
Invece non ho amato per nulla "Intervista a Tex Willer", eccessivamente surreale e basata su un argomento per me noioso.
Il filo conduttore di questo libro a mio avviso, indipendentemente dagli argomenti trattati, è la malinconia, una malinconia generata talvolta da eventi drammatici che lo scrittore tuttavia non strumentalizza per indurci alla lacrima facile, bensì ci trasmette un malessere più sottile, malinconico appunto.

Citazioni:

"Qualcuno ha detto che le cose non esistono se non abbiamo le parole per chiamarle. Tantissimi odori e tantissimi profumi non esistono solo perchè non sappiamo come chiamarli."

"Tutti noi le abiamo, le pulsioni criminali. Quelli che non lo sanno o non lo ammettono (e fra questi ci sono i moralisti) aono i più pericolosi, perchè non esssendo consapevoli, non hanno il controllo del meccanismo."